L’antichissima storia è stata registrata nella letteratura del XI secolo e rivisitata in rotoli dipinti Dojoji Engi nel XV secolo, diventando uno dei racconti più noti del folklore giapponese. Narra che nel 929, Anchin, un monaco pellegrino giovane e bello, in viaggio per il Kumano Hongu, un famoso santuario a sud di Dojoji, si fermò alla locanda di Shoji, sulla riva del fiume Hidaka. Kiyohime o Kiyo, la figlia del padrone, si prese cura di lui. I due giovani si innamorarono fino a che il monaco, vinta la passione contraria al suo stato, rinunciò a ulteriori incontri e alle insistenze di Kiyo promise di ritornare sulla via del ritorno. Ma non tornò. La fanciulla, infuriata, si mise alla ricerca del monaco e lo incontrò in riva al fiume. Anchin per sfuggirle, chiese a un barcaiolo di fargli attraversare il fiume, ma Kiyo lo inseguì a nuoto e, per la grande rabbia, uscendo dal fiume, venduta l’anima a Enma-O, dio dell’oltretomba, prese le fattezze della diavolessa Hannya. Il suo volto si tramutò in quello di un’orribile megera e il suo corpo si riempì di squame trasformandosi in un enorme serpente. Il monaco spaventato cercò rifugio nel monastero Dojoji dove i sacerdoti lo nascosero sotto la grande campana del tempio. Kiyohime lo raggiunse e scuotendo forsennatamente le catene che reggevano la campana, la fece cadere imprigionandolo. Iniziò poi a percuotere la campana con la coda e la arroventò con lingue di fuoco che fuoriuscivano dalla bocca. Quando i fratelli riuscirono a sollevare la campana raccolsero solo un pugno di ceneri. Da questa leggenda trasse origine la danza Dojoji del Teatro Noh, con Hannya, popolare maschera dalle sembianze diaboliche, dall’ampia bocca aperta in un ghigno satanico e dal volto segnato da profondi solchi e occhi abbaglianti, con due grosse corna. Rappresenta un demone femminile geloso e viene utilizzata per rappresentare una donna così gelosa da essersi trasformata in un demone.
Hannya era una donna bella, pura e gentile. Ma un giorno incontrò un uomo dall’aspetto di samurai, che portava sul volto le ferite di molte battaglie, e se ne innamorò perdutamente. Un giorno, recatasi alla sorgente per attingere acqua, udì risa di donna e, curiosa, si avvicinò. Sul prato vide una katana dal fodero viola con intarsi dorati, a lei ben nota e profili di corpi avvinghiati. Travolta da molte emozioni, dolore, disperazione e odio, fuggì verso il fiume per annegare, ma uno spirito apparso dalle acque le offrì comprensione e aiuto e le propose un patto che avrebbe posto fine alle sue pene: in cambio del suo volto e della sua mortalità ricca di fasti e di bellezza, le avrebbe donato la propria immortalità. Hannya, che ormai non aveva più nulla per cui valesse la pena mantenere le proprie sembianze, accettò, senza sapere che l’unica cosa che può rendere immortale un umano è la forza del proprio sentimento, che governa pensiero e azione, condiziona esiti ed effetti e che, in Hannya, era diventato il sentimento immortale, la gelosia. Hannya trasfigurò, così, il viso con l’odio e la gelosia che le avevano animato il corpo, e questi segni si fecero eterni, quando divenne demone immortale. Adesso è orrida, putrida, una creatura negletta, caduta preda di un inganno per la propria, umana, vanità.